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TOGLIATTI: NON TROVO NULLA DA RIDIRE SE MOLTI MORIRANNO.

Ecco la lettera che Palmiro Togliatti scrisse il 15 febbraio 1943 a Vincenzo Bianco, responsabile a Mosca per il Pci per il lavoro con i prigionieri di guerra.
La nostra posizione di principio rispetto agli eserciti che hanno invaso l’Unione Sovietica, è stata definita da Stalin, e non vi è più niente da dire. Nella pratica però, se un buon numero di prigionieri morirà in conseguenza delle dure condizioni di fatto, non ci trovo assolutamente niente da dire. Anzi. E ti spiego il perché. Non c’è dubbio che il popolo italiano è stato avvelenato dalla ideologia imperialistica e brigantesca del fascismo. Non nella stessa misura che il popolo tedesco, ma in misura considerevole. Il veleno è penetrato tra i contadini, gli operai, non parliamo della piccola borghesia e degli intellettuali, è penetrato nel popolo, insomma. Il fatto che per migliaia e migliaia di famiglie la guerra di Mussolini e soprattutto la spedizione contro la Russia, si concludano con una tragedia, con un lutto personale, è il migliore, è il più efficace degli antidoti… E’ difficile, anzi impossibile, distinguere in un popolo chi è responsabile di una politica, da chi non lo è, soprattutto quando non si vede nel popolo una lotta aperta contro la politica delle classi dirigenti. T’ho già detto: io non sostengo affatto che i prigionieri si debbano sopprimere, tanto più che possiamo servircene per ottenere certi risultati in un altro modo; ma nelle durezze oggettive che possono provocare la fine di molti di loro, non riesco a vedere altro che la concreta espressione di quella giustizia che il vecchio Hegel diceva essere immanente in tutta la storia.
Palmiro Togliatti
Fonte : Sito Tempio di Cargnacco

TERRIFICANTE ODISSEA DEGLI ITALIANI IN RUSSIA.

Qualcuno è stato nel paradiso sovietico.
“Gli infelici urlavano dalla febbre, invocavano madri e spose, si protendevano come allucinati fantasmi verso i reticolati, per chiedere un tozzo di pane.”

Sulle varie versioni più o meno documentate, ma tutte concordi circa la drammaticità delle sofferenze subite dagli uomini dell’Armir rimasti prigionieri dei russi, è forse possibile fare una luce completa attraverso il racconto terrificante di un sacerdote mantovano, il tenente cappellano Umberto Alai, ritornato recentemente dai campi di prigionia sovietici.
Dopo un anno di prigionia in campo tedesco, costretti a lavorare come schiavi nelle miniere di rame della Serbia, mal nutriti e sfruttati, inondati di scarafaggi e di cimici, i militari italiani che non avevano voluto aderire alla repubblica di Salò, né piegarsi a Hitler, conobbero la gioia della liberazione nell’ottobre 1944, quando le vittoriose forze russe raggiunsero e superarono la zona.

Un corteo di 4.000 uomini.
Un corteo di quattromila italiani, repentinamente rinati alla speranza, iniziò così la sua marcia, ma percorsi appena pochi chilometri, un capitano russo ubriaco ordinò ai suoi uomini una rigorosa perquisizione dei prigionieri italiani, al fine di privarli delle eventuali armi in loro possesso. Furono trovate in tutto una baionetta e una rivoltella raccattate lungo il cammino dai soldati. Bastò questo per giustificare, a titolo di castigo, la rapina di ogni oggetto di valore, dall’orologio al bagaglio personale. Ingannati da continue menzogne, stanchi e affamati, i prigionieri liberati vagarono per giorni e giorni fino a che altri soldati russi, armati fino ai denti, operarono a Tinovo una nuova perquisizione, frugando in ogni tasca, distruggendo tutti i documenti più preziosi, come gli elenchi dei compagni morti e la pianta dei cimiterini disseminati nella Balcania, togliendo dai piedi le scarpe in buono stato e sostituendole con altre, a brandelli e persino profanando con furia vandalica l’Altare da campo, frantumando il Calice e stracciando i Libri Sacri, ritenuti trattati di propaganda.
Infine, dopo una marcia di cinquanta chilometri sotto una pioggia torrenziale, durante la quale parecchi compagni caddero sfiniti – racconta il cappellano Alai – ci fecero traghettare il Danubio presso Vidin, trasportandoci quindi a Calafat in Romania dove ci lasciarono 40 giorni a far da schiavi nel porto, a lavorare 17 ore su 24 sotto il bastone spietato dei bessarabici.
In seguito, a scaglioni, gli ex prigionieri vennero imbarcati su di un barcone che risalì il Danubio per 800 Km, fino a Reni; 400 uomini furono pigiati in ogni stiva che ne avrebbe contenuti a stento un centinaio. Per un mese gli infelici vissero in quelle condizioni, senza potersi muovere, costretti a servirsi collettivamente di un grande mastello messo al centro della stiva per le loro necessità. Una zuppa, un pezzetto di pane secco e un po’ di pesce salato: logorati da un simile irrisorio nutrimento, coperti di pidocchi, sbarcarono a Reni, da dove vennero avviati in una serie di caverne scavate nella nuda terra, umide, sporche, prive di illuminazione e sferzate dal rigido ed implacabile vento della Bessarabia. Bastonate e rancio sporadico.

Il delirio e la morte.
In mezzo a tanto orrore – prosegue il sacerdote – scoppiò l’epidemia di tifo petecchiale. Curati affettuosamente e instancabilmente dal medico italiano, gli infelici urlavano, vaneggiavano, divorati dalla febbre e dal delirio, invocando le madri e le spose, chiedendo disperatamente pietà. Cento, centoventi soldati morivano ogni giorno; gli altri, come terrificanti fantasmi, si protendevano verso i reticolati, soltanto per chiedere un tozzo di pane. L’elenco dei seicento morti mi venne anch’esso rubato durante un’ulteriore perquisizione…
Ma ecco che i trasporti ripresero e i russi mandarono alcuni gruppi di prigionieri a Griasovac a circa 400 chilometri a nord di Mosca. Il viaggio ebbe la durata di un mese e fu caratterizzato da un freddo pauroso e da una fame allucinante. Dopo un altro mese di contumacia in tale zona, nuovamente perquisiti, i derelitti vennero accompagnati in un nuovo “lager” dove rimasero circa un anno, ossia fino all’aprile 1946, data della partenza per l’Italia.
– Ci hanno liberati – conclude il cappellano militare – liberati di tutto, spesso anche della vita.
Fonte: Sito Tempio di Cargnacco

LE OPERAZIONI DEI MAS E DEI SOMMERGIBILI TASCABILI ITALIANI NEL MAR NERO 1942-1943

di Alberto Rosselli

Alla fine di marzo del 1942, in concomitanza con l’offensiva tedesca in Crimea e con l’imminente attacco alla munita base navale di Sebastopoli, il Comando Supremo di Berlino si rese conto della necessità di disporre, a difesa del suo traffico navale lungo le coste meridionali della penisola di Crimea e all’interno delle acque del Mare di Azov, di un’adeguata scorta di unità sottili veloci e di un consistente numero di sommergibili di piccolo tonnellaggio. Non potendo fare fronte completamente a questa impellente necessità, (dall’inizio della primavera del ’42 i tedeschi avevano provveduto ad inviare nel Mar Nero, lungo la via fluviale danubiana, un ridotto seppur efficiente quantitativo di motovedette e sommergibili costieri), l’ammiraglio Reader chiese al Comando della Marina Militare Italiana di intervenire in quel lontano scacchiere (ma anche sul grande Lago Ladoga)(1) con una flottiglia mista composta da Mas, sottomarini “tascabili” CB e “barchini” esplosivi.

Si trattava di mezzi adatti a contrastare la temibile flotta sovietica del Mar Nero, composta da una corazzata (la Pariskaja Kommuna), quattro incrociatori pesanti (tra cui il Molotov, allestito su progetto italiano d’anteguerra) una decina di cacciatorpediniere (alcuni dei quali pesanti appartenenti alla classe Kharkov), il conduttore di flottiglia Tasken, circa 29 sommergibili di piccolo e medio tonnellaggio e numerosissime unità da pattugliamento e da trasporto. Favorevolmente impressionato dai numerosi successi ottenuti da questi mezzi nel corso dei primi due anni di guerra nel settore mediterraneo, Reader aveva dunque buone ragioni per considerare l’apporto italiano in maniera del tutto positiva (si tenga presente che la prima richiesta formale per un intervento italiano nel Mar Nero fu fatta dall’ammiraglio tedesco il 14 gennaio 1942, proprio in vista della grande offensiva germanica in bassa Ucraina). A titolo di cronaca è da notare che, nel corso del periodo di cobelligeranza (1940-1943), fu l’unica volta in cui la Germania fece all’Italia una specifica richiesta di intervento militare di supporto, proprio in considerazione “della superiorità dei mezzi siluranti leggeri, di superficie e subacquei, della Regia Marina rispetto a quelli di cui disponevamo” [Reader, ndr]. Fu quindi per non deludere l’alleato e per cercare in qualche modo di compensare la redditizia attività svolta dagli Uboat tedeschi inviati a partire dal 1941 nel Mediterraneo contro le forze navali britanniche, che l’ammiraglio Riccardi diede immediate disposizioni circa l’invio di quattro Mas (da 24 tonnellate di dislocamento), sei sommergibili CB da 35 tonnellate, cinque motoscafi siluranti e cinque barchini esplosivi.

Le tre squadriglie vennero raggruppate nella 101ma Squadra ed inquadrate per lo spostamento nel Mar Nero nella Autocolonna Moccagatta. La flotta d’assalto italiana venne posta sotto il comando del capitano di fregata Francesco Mimbelli. Subito ci si rese conto che il problema più grosso da affrontare era quello relativo al trasferimento nel Mar Nero delle unità.

Infatti l’unica soluzione risultava essere quella del trasporto via terra poiché, come è noto, lo Stretto turco dei Dardanelli era chiuso per convenzione internazionale al traffico militare. Per cercare di risolvere la difficile questione il Comando della Marina diede prova di grande capacità e fantasia allestendo in brevissimo tempo una colonna speciale composta da 28 automezzi, tre trattori, nove autocarri, autobotti e rimorchi. La lunga fila di veicoli partì dalla base di La Spezia il 25 aprile e dopo avere superato con successo innumerevoli ostacoli e difficoltà (gli autieri e i soldati del genio aggregati dovettero, in taluni casi, demolire diverse costruzioni lungo la strada per consentire il passaggio degli ingombranti mezzi), la colonna giunse a Vienna dove le imbarcazioni vennero fatte scivolare nelle acque del Danubio percorrendo il corso del quale raggiunsero poi il porto rumeno di Costanza (2 maggio). Da quest’ultimo scalo, con una navigazione rapida e priva di inconvenienti, tutte le unità italiane raggiunsero infine il porto russo di Yalta, che sarebbe poi diventata la loro prima base operativa. Pochi giorni dopo il loro arrivo in questa località, situata lungo la costa meridionale della penisola di Crimea, le unità italiane furono già pronte ad intervenire contro il numeroso naviglio sovietico da guerra e da trasporto presente nel quadrante di mare compreso tra la fortezza Sebastopoli, lo Stretto di Kerch e le basi di Novorossijsk e Tuapse.

Dal maggio del 1942 al maggio del ’43, le unità italiane svolsero un’intensa e brillante attività, collezionando diversi affondamenti e guadagnandosi la stima dell’alleato tedesco e il rispetto dell’avversario russo. L’11 e il 13 giugno del ’42, i Mas silurarono un piroscafo da 5.000 tonnellate (affondato) e un trasporto da 10.000 tonnellate (poi finito dagli Junker 87 germanici). Suddivise, per motivi tattici e di sicurezza, tra le basi di Yalta e Feodosia, le unità italiane dovettero però fare i conti con la rabbiosa offesa aerea del nemico che in quello scacchiere disponeva di oltre 700 tra caccia, bombardieri e ricognitori. E non potendo fare conto su un’adeguata protezione (i tedeschi, duramente impegnati prima nella conquista del sistema fortificato di Sebastopoli e Balaklava e poi sul fronte di Mariupol, Rostov, Krasnodar, non accordarono quasi mai una scorta ai mezzi italiani), i Mas e i sommergibili “tascabili” dovettero subire le prime perdite.

Proprio all’alba del 13 giugno, uno stormo di caccia e caccia-bombardieri sovietici Yak e Ilijushin, appoggiato da una mezza dozzina di motosiluranti, attaccò il porto di Yalta causando l’affondamento del sommergibile del sottotenente di vascello Farolfi. La perdita fu però quasi subito compensata da due brillanti vittorie tricolori. Infatti, il 15 e il 18 giugno, nel corso di un’operazione notturna, i sommergibili CB numero 3 e 2 riuscirono a silurare e a colare a picco i sommergibili sovietici S32 e SHCH 306 (che dislocavano, rispettivamente da 840 e 1.070 tonnellate) che stavano navigando in superficie.

Il 18 giugno anche i Mas conobbero una giornata di gloria e di sangue. Due unità italiane, infatti, attaccarono una colonna di grosse motozattere nemiche cariche di soldati, scortate da sei cannoniere, dirette a Sebastopoli. Nello scontro, che causò il sicuro affondamento di un trasporto sovietico, venne ferito mortalmente il sottotenente di vascello Bisagno che si trovava a bordo del Mas 571. Tra la fine di giugno e i primi di luglio, le unità italiane parteciparono, a fianco dei tedeschi e dei rumeni, alla presa delle fortezze di Sebastopoli e di Balaklava, e i queste operazioni ebbe modo di distinguersi il capitano di corvetta Todaro, che con la sua unità attaccò ripetutamente il numeroso naviglio avversario (di superficie e sottomarino) impegnato nel tentativo di evacuare specialisti, commissari politici ed alti ufficiali dell’esercito sovietico. Nel corso della gigantesca battaglia che infuriò nelle acque della Crimea dal maggio al luglio del ’42, i quattro Mas effettuarono 65 missioni, mentre i motoscafi siluranti e i sommergibili CB ne compirono, rispettivamente, cinquantasei e ventiquattro.

A dimostrazione dell’ardimento e dell’eccellente resa degli equipaggi e dei mezzi italiani, il 29 giugno l’ammiraglio tedesco Schuster (comandante in capo del Gruppo Sud della Kriegsmarine) trasmise all’ammiraglio Riccardi le sue personali congratulazioni, citando in un comunicato radio ufficiale “lo spirito combattivo degli equipaggio italiani agli ordini del capitano di fregata Mimbelli”. Con lo spostamento ad est del Gruppo Armate Sud tedesco, anche la flottiglia italiana del Mar Nero trasferì le sue basi di appoggio più ad oriente, consolidando le sue posizioni logistiche di Feodosia e Iwan Baba. Nel mese di agosto, in concomitanza con le operazioni condotte dalle flottiglie di motozattere e bettoline della Kriegsmarine per trasferire dalla costa orientale della penisola di Crimea alla sponda occidentale del Mare di Azov uomini, armi e rifornimenti destinati alla nuova offensiva in direzione della catena montuosa del Caucaso, ai Mas italiani venne affidato il compito di parare gli attacchi delle motosiluranti e delle cannoniere nemiche a caccia di facili prede.

Nella notte tra il 2 e il 3 agosto, i Mas 573 (del capitano di corvetta Castagnacci), 568 (sottotenente Legnani) e 569 (sottotenente Ferrari) attaccarono, a sud ovest di Kerch, l’incrociatore pesante Molotov (appartenente alla classe “Kirov”) (2) e il cacciatorpediniere Kharkov (classe “Leningrad”) in missione di intercettamento di naviglio da trasporto tedesco. Le due grosse unità sovietiche, al comando del contrammiraglio N.E. Basisty si avvicinarono all’improvviso alla costa aprendo il fuoco con i loro pezzi da 181, 122 e 100 millimetri contro obiettivi situati tra Iwan Baba e Feodosia. Resisi conto del grave pericolo (l’eventuale aggressione di un potente incrociatore da 11.500 tonnellate, armato con 9 pezzi da 181 millimetri, ai danni di una delle tante flottiglie di bettoline tedesche in azione in quel tratto di mare avrebbe determinato un sicuro disastro), i comandanti dei Mas 573 e 568 decisero di attaccare immediatamente la grossa unità in breve successione. Ma mentre i siluri del primo mezzo non andarono a segno, uno dei due lanciati a brevissima distanza dal Mas 568 di Legnani riuscì invece a centrare la zona di poppa del Molotov che nel frattempo aveva aperto un fuoco d’inferno contro le unità italiane con i suoi pezzi da 100 e da 45 millimetri.

Dopo avere colpito la nave, il Mas 568 cercò subito di eludere l’avversario con una rapida manovra di sganciamento ma lo scafo italiano venne inseguito a tutta forza dal caccia Kharkov che nel frattempo era accorso in aiuto del Molotov . Con una prontezza di riflessi e con notevole sangue freddo, il comandante Legnani diede ordine ai suoi uomini di sganciare le dieci piccole bombe di profondità che l’unità portava a poppa regolandole alla minima profondità di scoppio. Le cariche esplosero in successione proprio davanti alla prora del Kharkov provocandone un danneggiamento di tale entità da costringere il caccia russo a desistere dall’inseguimento. Sia il Molotov che il Kharkov si ritirarono dalla zona di combattimento in direzione est per raggiungere al più presto la propria base. Il Mas 568, che nell’arco di appena 15 minuti era riuscito a mettere fuori combattimento entrambe le unità avversarie, poté rientrare anch’esso a Yalta, sebbene danneggiato e bersagliato da alcuni velivoli sovietici attirati sul posto dai bagliori delle esplosioni.

La mattina del 3 agosto anche i Mas 573 e 569 fecero rientro a Feodosia. Dopo questa brillante azione che comportò il gravissimo danneggiamento del Molotov (l’unità, trainata nel porto di Bathumi, venne messa in bacino sottoposta a ben due anni di lavori di riparazione che comportarono la completa sostituzione di circa venti metri di scafo poppiero: segmento che i tecnici russi dovettero asportare dalla nave gemella Frunze a quel tempo in fase di allestimento) e quello, minore, del Kharkov (il caccia rimase alcune settimane bloccato in bacino), i Mas italiani compirono ancora una mezza dozzina di missioni, colando a picco soltanto un piroscafo da 3.000 tonnellate di stazza. Il 9 settembre del ’42, poco dopo la visita ufficiale dell’ammiraglio Reader alla base “italiana” di Yalta, quest’ultima venne violentemente attaccata a bassa quota da uno stormo di caccia-bombardieri sovietici che colpirono ed affondarono i Mas 571 e 573 e una bettolina, riuscendo anche a danneggiare seriamente i Mas 567, 569 e 572. Nel periodo compreso tra il mese di ottobre del ’42 e il gennaio del 1943 (in concomitanza con la grande offensiva d’inverno russa che costrinse le forze dell’asse a capitolare a Stalingrado e a ritirarsi dalla linea del Caucaso e del Don) l’attività dei mezzi italiani (sia di superficie che sottomarini) risentì pesantemente del cattivo andamento del conflitto e della carenza di carburante, al punto che il Comando della Marina Italiana decise di iniziare a fare rientrare in patria gli equipaggi, lasciando ai marinai tedeschi (parte dei quali vennero addestrati nella base di Pola, Istria, e presso gli stabilimenti motoristici della Isotta Fraschini di Milano) i mezzi ancora utilizzabili. Ciò nonostante, dal gennaio al maggio del 1943 le unità italiane continuarono a combattere. E il 17 aprile, nell’ambito di un’operazione tedesca per la riconquista di un’ampia testa di ponte nell’area di Novorossjisk, sette Mas (le perdite subite nel ’42 erano state nel frattempo rimpiazzate con l’arrivo di nuovi motoscafi dall’Italia) assieme a motosiluranti germaniche si trasferirono ad Anapa per insidiare il traffico costiero russo. Ma dopo alcuni infruttuosi scontri, il 25 aprile tutte le operazioni in quel settore vennero sospese.

Dopo avere abbandonato le basi di Feodosia e Iwan Baba, troppo esposte alla montante offensiva aerea sovietica, il 13 maggio, i Mas italiani effettuarono la loro ultima missione al largo di Yalta, dopodiché, il giorno 20, nel corso di una cerimonia ufficiale, gli italiani cedettero i propri mezzi alla Kriegsmarine. Le ultime unità equipaggiate da italiani ad operare ancora nel Mar Nero furono i sommergibili costieri CB che dalla nuova base arretrata di Sebastopoli effettuarono, tra giugno e agosto del ’43, altre 21 missioni di cui una soltanto (quella tra il 25 e il 26 agosto) ebbe esito positivo: il CB al comando del tenente di vascello Armando Sibille riuscì a silurare e ad affondare un sommergibile russo di classe non identificata. Dopodiché, anche gli ultimi sommergibili vennero ritirati e ricoverati nel porto rumeno di Costanza, dove nell’agosto del ’44 furono catturati (in pessimo stato) dai russi.

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(1) Sul Lago Ladoga operò la 12ma Squadriglia Mas (unità N.527 e 528) al comando del capitano di corvetta Bianchini. I mezzi vennero trasportati da La Spezia fino alle sponde del grande specchio lacustre situato a nord di San Pietroburgo da una colonna autocarrata che coprì oltre 3.100 chilometri di distanza in 26 giorni. Il 15 agosto del ’42, la coppia di siluranti battenti bandiera tricolore iniziò la sua brillante seppur limitata attività con l’affondamento, effettuato dal Mas 527 del tenente di vascello Renato Bechi, di una cannoniera sovietica della classe “Bira”. Mentre il 28 agosto la fortuna sorrise al Mas 528 che mandò a picco una grossa “maona” da oltre 1.000 tonnellate carica di soldati. Il 29 settembre i due Mas italiani tentarono di silurare una motozzattera armata russa e il 22 ottobre, pochi giorni prima della glaciazione del lago, esse sostennero la loro ultima battaglia attaccando a colpi di mitraglia e di siluro tre cannoniere nemiche nei pressi della località di Suho. Nel mese di novembre, i due Mas vennero ceduti alla marina militare finlandese e gli equipaggi furono fatti rientrare in Italia.

(2) Incrociatore Molotov. Questa unità venne definita dal Registro russo come “leggera” ma se la si compara ai tipi della stessa classe appartenenti alle altre marine dello stesso periodo essa risulta, per tonnellaggio e armamento, più simile ad un tipo “pesante”.

FONTE: REGIAMARINA.NET